L’uomo e la donna che vogliono vivere il loro battesimo devono andare verso le periferie, verso le periferie geografiche, le periferie culturali, le periferie esistenziali, devono andare con questa proposta evangelica... vivere in questa tensione, una tensione tra l'interiorità dell’incontro con Gesù che vi spinge verso fuori e pone tutto in questione, tra un andare e un tornare continuo.





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Così Bergoglio ha ritrovato quel che unisce Francesco e Ignazio, senza pauperismi e in piena ortodossia. Intervista a Giovanni Filoramo






Dopo il Conclave del 2005 la folla di piazza San Pietro era esplosa sentendo dire “Ratzinger”;quest’anno è esplosa al nome “Franciscum”. Il santo di Assisi è parso garanzia di grandi cambiamenti e ha subito ammantato della sua aurea Papa Bergoglio: la televisione si è soffermata sul suo silenzio orante, i giornali ne hanno sottolineato i gesti semplici, le foto hanno evidenziato la croce di ferro al collo. E’ l’ora delle nuove nozze della chiesa con madonna Povertà? “Non bisogna dimenticare però che all’inizio la scelta di povertà di san Francesco era una penitenza per la vita di peccati nella quale era stato immerso fino ad allora”, spiega al Foglio Giovanni Filoramo, ordinario di Storia del cristianesimo all’Università di Torino e autore per Laterza di “La croce e il potere: i cristiani da martiri a persecutori”. “Nel Testamento scritto poco prima di morire, san Francesco stesso racconta che la sua vita era cambiata al contatto con dei lebbrosi: non con dei poveri, quindi. La scelta di vivere in povertà, da parte sua e dei suoi primi discepoli, è posteriore e si riassume nel vivere secondo la forma del Vangelo imitando la povertà radicale di Cristo. San Francesco e i suoi vivono tale condizione ma non la assumono come ideologia, come pauperismo”.
Oggi come nel XIII secolo la chiesa è in un momento di crisi, e il ricorso al nome di Francesco è significativo oltre che suggestivo. “San Francesco e la sua fraternità”, spiega infatti Filoramo, “hanno fornito alla chiesa un modello di vita evangelica che, pur con difficoltà, poteva essere accolto accettando la loro Regola, così da inserire in modo ortodosso nella vita ecclesiale forme di vita che in precedenti casi di pauperismo o misticismo erano sfuggite al controllo ecclesiale finendo condannate come eretiche. Sempre nel Testamento c’è un elemento rivelatore al riguardo: san Francesco dichiara la propria fede nei sacerdoti purché vivano ‘secondo la forma della Santa chiesa romana’. Li considera suoi signori perché autorizzati a celebrare l’eucaristia, e non vuole ‘considerare in loro il peccato’ perché attraverso di loro intravvede il Cristo. Si tratta di una scelta di piena ortodossia e di piena sottomissione”. Non bisogna quindi presumere che san Francesco intendesse rivoluzionare le gerarchie, come oggi sembra intendere l’opinione comune. “Anzi, dal Testamento traspare un ammonimento ai suoi frati: non si lascino cogliere dalla tentazione di considerarsi i migliori, sulla base di una pretesa superiorità morale o intellettuale. Questa chiara volontà di san Francesco è stata uno dei motivi che hanno spinto Innocenzo III ad approvarne la Regola e a considerare la sua fraternità come dono divino”.
“Questo motivo dell’obbedienza e della piena ortodossia”, continua Filoramo, “è, almeno per quanto riguarda i fondatori, un elemento che accomuna il francescanesimo ai gesuiti”. I rapporti fra i due ordini non sono stati idilliaci, e nel Settecento fu proprio l’ultimo Papa francescano a dissolvere la Compagnia di Gesù. E’ possibile tuttavia che Bergoglio abbia potuto vedere dei punti in comune fra san Francesco e sant’Ignazio? “L’elemento più evidente è la scelta di imitare il Cristo fino alla morte. Di qui la formazione di una cerchia di discepoli che ricorda simbolicamente la cerchia degli apostoli, col fondatore nel ruolo di alter Christus. Altro elemento biografico in comune: sono due laici, Francesco un mercante, Ignazio un nobile; entrambi influenzati dall’ideale del cavaliere, da una rilettura del tema antico del soldato di Cristo. In comune ci sono anche l’esperienza mistica e la vocazione missionaria”.
Appare controverso il rapporto di san Francesco con le altre fedi: le giornate interreligiose di Assisi ne hanno fatto il santo dell’incontro, mentre la “Chronica” di frate Giordano lo definisce “grande convertitore”. “Quest’alternativa non è storicamente corretta”, ammonisce Filoramo. “La ‘Regola non bullata’ (approvata dall’ordine nel 1221 ma non da Papa Onorio III) permette a qualsiasi fratello mosso da ispirazione divina di andare ad annunziare il Vangelo fra i saraceni, previo permesso del suo superiore. Questa Regola, emessa due anni dopo il viaggio di san Francesco in Egitto e un anno dopo che cinque francescani erano stati martirizzati a Marrakech, precisa che ci sono due modi di vivere fra i saraceni: umilmente, evitando la disputa ma confessando di essere cristiani, o predicando coraggiosamente la Parola di Dio e rischiando l’uccisione. Qui coesistono i due modi tipici della missione cristiana: la testimonianza fino al martirio, che aveva spinto san Francesco a cercare l’incontro col sultano Al Malik, e l’adattamento, termine che diverrà fondamentale proprio coi gesuiti”.

Il Foglio 21 marzo 2013


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