L’uomo e la donna che vogliono vivere il loro battesimo devono andare verso le periferie, verso le periferie geografiche, le periferie culturali, le periferie esistenziali, devono andare con questa proposta evangelica... vivere in questa tensione, una tensione tra l'interiorità dell’incontro con Gesù che vi spinge verso fuori e pone tutto in questione, tra un andare e un tornare continuo.





MAGISTERO


A Santa Maria Maggiore c’è la storia dei tre papi francescani (e poco poverelli) che molto hanno speso per lo splendore di Roma





Papa Francesco gesuita ha pregato in Santa Maria Maggiore, basilica dove coabitano le memorie di tre pontefici francescani: Niccolò IV, Sisto IV della Rovere, Sisto V Peretti. A dire il vero Sisto IV venne soltanto evocato, poiché la statua che avrebbe dovuto ritrarlo, voluta da Sisto V, non fu mai realizzata. Della Rovere aveva fondato la cappella in Vaticano che da lui prese il nome. Anche in Santa Maria Maggiore ve n’è una ugualmente intitolata, a destra dell’altare maggiore, edificata da Sisto V, Pontefice che, nel suo impeto romano-cristiano e animato da uno vivo spirito di rilancio urbico, volle produrre qualcosa che ricordasse quanto il predecessore aveva costruito poco meno di un secolo avanti. Entrambi questi papi francescani erano spinti dall’aspirazione di far di Roma il centro della cristianità e di riaffermarne il ruolo di “caput mundi”.
Niccolò IV, marchigiano come il Peretti, visse alla fine del Duecento. Uomo devoto, umile al punto da rifiutare il mandato pontificio al primo scrutinio e da accettarlo – obtorto collo – a distanza di una settimana, pur dedicando la vita alle attività pastorali, non tralasciò di abbellire la vetusta basilica patriarcale, commissionando al sommo Arnolfo il gruppo scultoreo del “Presepe”, sito fino a qualche tempo fa nella cripta indi trasferito. Niccolò IV è raffigurato nello stupefacente mosaico absidale di Jacopo Torriti, in ginocchio e di dimensioni inferiori ai santi Pietro, Paolo e Francesco. Al presule si deve l’avvio dei lavori del Duomo di Orvieto e forse di Cagli.
Sisto V rimase sul soglio pontificio dal 1585 al 1590, anni cruciali e per Roma, grazie a lui, di splendore. Storici e archeologi non sono unanimi nel considerarlo un grande Papa, anzi egli è inserito nella lista degli esecrandi. Promosse ingenti lavori urbanistici e decorativi, finalizzati alla celebrazione del Giubileo del 1600 che non rappresentava una qualunque scadenza cerimoniale. Il 1600 era l’anno che suggellava un secolo di travagli per la chiesa cattolica, la quale, nella determinazione di riaffermare il suo primato, intendeva ricongiungersi anche sul piano culturale con la tradizione medievale. In tal senso le immagini divennero un specie di antidoto didascalico contro l’aniconicità protestante e i cicli di affreschi narrativi che addobbavano i maggiori cantieri sistini – vedi la Scala Santa e la Biblioteca vaticana – così come la magnificenza scenografica di Roma, e svolsero la funzione di coinvolgere il pubblico. Quindi l’arte sistina è da considerarsi popolare, e gli affreschi di quel momento una sorta di “biblia pauperum”. In particolare quelli della Biblioteca vaticana intendevano saldare un nesso tra il sapere degli antichi e del cristianesimo, attribuendo a quest’ultimo la prerogativa della sintesi. Tutto è evidenziato in un dipinto su muro non particolarmente bello che raffigura una “Allegoria della Roma cristiana”, dove sotto le spoglie di una divinità elmata e con la croce in mano e al suo fianco il Tevere, vecchione accigliato che versa da una conchiglia acqua lustrale sulla città eterna, si inneggia alla “Roma felix”, con la duplice allusione al nome del Peretti, Felice, e alla capillare rete urbana di rifornimento idrico, l’Aqua felix, dal medesimo fatta allestire per approvvigionare i quartieri poveri.
Non dimentico delle antichità romane, Sisto V si preoccupò di spostare ed erigere obelischi, a cominciare da quello oggi in piazza San Pietro sul quale infisse la croce, mentre in cima alla colonna Traiana mise una statua di san Pietro. La “trasportazione” dell’obelisco (più di trecento tonnellate) fu impegno dell’architetto Domenico Fontana, che inventò una complessa macchina lignea atta a sollevarlo. Poiché il Fontana conosceva bene il carattere (e i modi) del Papa, nell’evenienza che l’ardua elevazione non riuscisse, tenne un cavallo sellato presso le mura Vaticane, pronto a tagliar la corda senza esitazione.
 
di Marco Bona Castellotti





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